Diamanti (2024) di Ferzan Özpetek — Recensione Film

Stasera, dopo chissà quanti mesi, ero al cinema (con i miei genitori, ops, e chi cazzo esce con me sennò), a guardare un film molto particolare, con una struttura che non credo di aver mai propriamente trovato altrove… Diamanti, di Ferzan Özpetek (un regista che, anche lui, temo di non aver mai visto prima).
Dovendolo descrivere in una parola, direi che è assolutamente meta. Ma, dato che sto scrivendo una recensione, posso spiegare anche perché: la trama racconta di come il regista stesso (che chiaramente appare anche a schermo in questo tipo di scene) abbia intenzione di produrre questo film, per cui si incontra con le diverse attrici che vorrebbe far recitare, per discutere del progetto. Con le attrici che leggono il copione, inizia allora la vera trama del film, in cui queste sono praticamente tutte protagoniste, cosa che il film fa percepire grazie allo sviluppo di piccole sottotrame di vita per ognuna di queste; alcune ben presentate, anche se altre secondo me lasciano un po’ il tempo che trovano, tirando a caso cose complesse su cui una toccata e fuga non sarebbe il caso.
La storia è ambientata evidentemente a Roma, verso gli anni ’70, e ruota intorno alla Sartoria Canova, in cui lavorano tutte queste donne, tra cui la acidissima co-proprietaria Alberta — che già dai primi minuti mi ha strappato diversi sogghigni, per quanto fossero inaspettate le sue risposte al retrogusto di stress lavorativo. In questo periodo le dipendenti sono tutte particolarmente oberate di lavoro, a causa di un influsso di clienti di importanza (e quindi esigenti) nel mondo dello spettacolo, e il carattere di Alberta certamente non aiuta. Nonostante ciò, nell’ambiente c’è comunque una forte unità, probabilmente più di cosa si trova in veri ambienti di lavoro, ed è attraverso i piccoli momenti di questa che si scopre la personalità di quasi tutti i personaggi.
L’ambientazione, perlopiù centralizzata, mi è piaciuta un botto, per quanto riguarda estetica e potere immaginativo. L’atelier è un grande palazzo, dove si alternano ambienti esterni e di transito, con quello stile tipo classico elegante, a quelli più interni, che sono a tutti gli effetti nello stile di una casa del tempo (ma con parecchie stanze). Sullo sfondo degli ambienti di lavoro, si vedono di continuo un sacco di vestiti particolari, costumi di scena, che li rendono particolarmente vivi anche al di là dei personaggi… non saprei dire molto a riguardo, però mi danno un certo calore, si sente proprio l’arte. E il racconto è in particolare un viaggio nella creazione dello sfarzoso abito rosso, commissionato dalla costumista Bianca Vega, per un film da girare a brevissimo.
Özpetek dedica il film innanzitutto a tre attrici che non conosco (mi dispiace…), ma l’opera è praticamente un omaggio alle donne in generale, e in effetti la formula di cast corale rientra bene in questo. Nella sartoria ci sono essenzialmente solo loro (degli uomini ci sono nella storia, ma hanno ruoli secondari o caricaturali), e per alcuni aspetti si potrebbe forse vedere il film come una storia di emancipazione femminile attraverso il lavoro; questo lavoro sia molto artistico che collettivo. E, a questo proposito, si potrebbe parlare infinitamente dei personaggi, ma è bene limitarmi solo a quelli che mi hanno colpito di più:
- Le sorelle Canova, per l’appunto, che in modo particolare si scontrano tra loro perché, a causa di traumi passati, Alberta è diventata troppo acida e ferente, concentrata solo sull’attività, mentre al contrario Gabriella non da il giusto peso al lavoro.
- Beatrice, la nipote della ricamatrice (assurdo come faccia rima), che per scappare dalla polizia si nasconde in sartoria (ed insisto!), ma ha la faccia tosta, e di notte si mette a modificare gli abiti in lavorazione… ma, quando Alberta la sgama, la assume, perché colpita dalle sue abilità artistiche innate.
- Nicoletta, sarta, picchiata e minacciata di morte dal marito che, dopo l’ennesima sera di abusi gratuiti — il film non dice, ma lascia intendere — se ne libera definitivamente, trovando in un momento la forza di farlo sparire (yikes!), che fino a quel momento non aveva avuto quasi nemmeno per confidarsi.
- Silvana, la cuoca delle sorelle, che mi ha colpito principalmente perché è interpretata da Mara Venier… che vedere al cinema mi ha fatto veramente stranissimo.
È comunque una commedia, alla fine, quindi nulla di particolarmente profondo, e certamente non impegnato. È scorrevole, a me è piaciuta, e quindi si, ne consiglio la visione. Va detto che sono un po’ forzati alcuni cliché che qui non approfondisco, ma non al livello da farmi svalutare il film, anche perché la metanarrazione l’ho trovata sfiziosa. È proprio il titolo del film, a tal proposito, che chiude in un cerchio la trama esterna e quella interna con una parola: diamanti sono per Özpetek le attrici convocate, e diamanti si rendono conto di essere tutte le lavoratrici dell’atelier in uno dei momenti in cui il morale è più a terra.
Infine, per fare il botto, ecco alcune curiosità autistiche (“trivia”), perché altrimenti che ci sto a fare?:
- Alberta, nel suo voler far trasparire uno stile lussuoso, indossa spesso dei foulard Pucci, che pur intravedendosi soltanto un po’ sotto il suo collo sono in realtà molto appariscenti (l’avrò notato per questo?)
- La sartoria, lo si vede per un attimo non ricordo scritto su quale oggetto piccolo, nella storia esiste dal 1953; se non ho letto male durante quell’istante, i tempi della storia effettivamente coincidono, piazzati relativamente al racconto dei fatti passati delle protagoniste.